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Zona euro: per Italia meglio tornare alla lira

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 Quale paese avrebbe interesse a lasciare la zona euro su base volontaria? Questa è la domanda che si è posta Bank of America Merrill Lynch e a cui ha provato a dare una risposta attraverso un’analisi costi-benefici, basata sulla valutazione dell’efficacia economica e sulla teoria dei giochi. In dettaglio, la banca ha analizzato quale sarebbe l’impatto di una uscita volontaria e preparata dall’euro, sugli  undici paesi che aderiscono alla moneta unica. Grecia, Italia e Irlanda potrebbero trarre notevole vantaggio da un’uscita dalla zona euro, mentre Germania, Finlandia e Austria avrebbero qualcosa in più da perdere.

“Gli investitori sottovalutano la possibilità che uno o più paesi si ritiri dall’Unione monetaria europea. La nostra analisi prevede una serie di risultati imprevisti che potrebbe interessare anche coloro che sono in disaccordo con le nostre conclusioni”, dicono gli autori dello studio.Secondo BofA Merrill Lynch, un ritorno alla lira permetterebbe all’Italia di migliorare i suoi indicatori economici, di rafforzare la competitività della sua produzione e di ottimizzare la sua bilancia dei pagamenti. Gli esperti hanno valutato l’impatto di una uscita dalla zona euro sulla crescita economica del paese, sul rendimento delle sue obbligazioni, sulla competitività e sulla bilancia dei pagamenti. Quanto maggiore è l’indice ottenuto, tanto più è difficile per un paese abbandonare la moneta unica europea. E viceversa.  Il più alto indice è stato assegnato alla Germania: 8,5 punti. Gli esperti ritengono che questo paese sia il meno interessato a lasciare l’euro, in quanto ciò potrebbe rallentare lo sviluppo economico e aumentare la spesa di Berlino per il servizio del suo debito. Gli indici più bassi (3,5 punti) caratterizzano l’Italia e l’Irlanda. L’indice della Grecia è di 5,3 punti.

Vediamo l’analisi.

1-  Per accusare il colpo di una uscita dall’area euro, che limita l’accesso ai mercati dei capitali, è necessario avere disavanzi pubblici limitati e surplus delle partite correnti. Senza alcuna sorpresa, la Germania si trova nella posizione migliore per affrontare questa sfida, davanti ad Austria, Paesi Bassi, e Italia. La Francia è al nono posto con l’Irlanda. Maglia nera alla Grecia e alla Spagna.

2- L’impatto sulla crescita dipenderebbe dal livello della moneta nazionale, dopo l’abbandono dell’euro e il suo effetto sul volume delle esportazioni. Considerata l’incidenza delle esportazioni sul PIL, l’Irlanda sarebbe la prima a trarne vantaggio.  La banca americana stima un incremento del 7% del PIL. L’Italia si colloca al secondo posto con una crescita del PIL del 3%. Al contrario, la Germania accuserebbe il maggiore calo (- 7%) a causa dell’impennata del marco.

3- Dopo la rottura dell’area dell’euro, i rendimenti sui titoli a 10 anni scenderebbero nei paesi periferici, con il ritorno alla sovranità monetaria, che elimina il rischio di default. Risultato: gli oneri finanziari diminuirebbero di 2200 punti in Grecia, 590 in Portogallo e di 400 in Irlanda. I tassi tedeschi salirebbero di 80 punti, perché il “bund” non svolgerebbe più il suo ruolo di rifugio. Ciò consentirebbe ai paesi periferici notevoli risparmi, stimati al 37,7% del PIL per la Grecia.

4- In caso di uscita dalla zona euro, l’indebitamento privato (famiglie, imprese) o pubblico (Stato) per quanto riguarda i rapporti esterni, dovrebbe essere denominato in valuta locale e non convertito. In caso di svalutazione monetaria, il debito diventerebbe più “leggero” per lo Stato indebitato e sarebbe il creditore a perderci. In caso di apprezzamento, il debito verrebbe svalutato di conseguenza e la Germania sarebbe il primo perdente. Effetto esattamente opposto nel caso dell’Irlanda, dove il debito estero rappresenta 17 volte il PIL, seguita dal Belgio (quattro volte il PIL).

Conclusione: Italia e Irlanda hanno più interesse a lasciare la zona euro e ad adottare una propria valuta. Al contrario, i paesi che hanno più da perdere sarebbero proprio Germania, Austria e Finlandia. Tra i paesi periferici, la Spagna avrebbe meno da guadagnare in caso di un collasso della zona euro, rispetto ai cugini del sud europeo.

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